APPROFONDIMENTI / Gli affreschi del "Muto" nella Parrocchiale di Pieve del Cairo

Gli affreschi del "Muto" nella Parrocchiale di Pieve del Cairo

Nel 1853 il prevosto Giovanni Cerra, dopo tanta riflessione, metteva in campo un ambiziosissimo progetto di ristrutturazione e ridipintura dell’interno della chiesa.

A lavori ultimati si potrà ben dire che poco rimaneva della antica chiesa cinquecentesca, che ovviamente nessuno di noi non ha mai visto ma che, dopo le accurate ricerche sfociate nel volume "500 anni...", edito dalla nostra Associazione, si può almeno immaginare.

L’operazione tra l’altro portò al dissanguamento delle finanze della Chiesa stessa, in tempi non molto floridi dal punto di vista economico.

Sicuramente l’aspetto esteriore del culto, rappresentato dalle strutture, aveva avuto anche nei secoli precedenti una certa importanza, ma a metà Ottocento diventò veramente fondamentale per la comunità pievese.

Ora il discorso non riguardava un singolo altare, era globale e riguardava tutta la decorazione a fresco della chiesa e questo era dovuto non solo al fatto noto che “l’appetito vien mangiando”, ma soprattutto muoveva dall’idea geniale di rendere la chiesa fruibile anche nelle navate laterali, in parte ostruite dagli altari. Il che portava il parroco e i fabbricieri della chiesa, cioè l’Amministrazione della stessa, a pensare di sfondare i muri perimetrali per costruire le cappelle che potevano ospitare gli altari, al di fuori del vecchio perimetro della chiesa stessa.

Non solo, ma a quel punto per recuperare ulteriore spazio utile per le sedi confessionali, si decideva anche di chiudere le due entrate laterali, i cui bellissimi portali, seppure non quelli originali cinquecenteschi, che erano già stati rifatti ad inizio Settecento (probabilmente al momento del rifacimento della facciata nel 1729), sono ancora visibili.

Veniva quindi deciso di aprire altre due porte sulla facciata, al di sotto degli originali finestroni e ai lati della porta centrale.

L’Amministrazione della chiesa, presieduta dal parroco, giustificava la decisione del restauro col fatto che per raggiungere l’obiettivo di “mantenere sempre viva nell’anima della popolazione la sacra fiaccola della Religione e contribuire al suo incremento” fosse necessario agire sul “culto esterno”, cioè sulla parte esteriore del culto, in massima parte rappresentato dalla struttura dell’edificio e dai suoi arredi, struttura che era stata fin troppo lasciata decadere. 

In effetti, queste considerazioni sul valore del lato estetico del tempio saranno poi fatte proprie anche da tutti i successori del teologo Cerra, fino ai giorni nostri. Ovviamente voler migliorare qualcosa è sicuramente un fatto positivo, a patto che vengano rispettati certi valori positivi che il passato può tramandare. Sarebbe opportuno cercare possibilmente di evitare guasti, a volte irreparabili, come la copertura o eliminazione di intonaci sui quali erano dipinti affreschi cinque o secenteschi, sostituiti  magari con pitture “moderne”, ma di scarso valore artistico oltre che estetico.

Della nostra parrocchiale sappiamo della esistenza dei dipinti sopra i vari altari cinque/seicenteschi e di quello della Madonna alla parete del coro, ma non possiamo, purtroppo o per fortuna, immaginare la qualità degli stessi e quindi nemmeno siamo in grado di fare valutazioni sull’eventuale patrimonio artistico andato perduto e non più fruibile.

Quindi, poiché pochissimo sappiamo di ciò che era dipinto sulle pareti della chiesa ricostruita nel 1518-19, possiamo solo ammirare e valutare il grandissimo lavoro pittorico che è stato realizzato centosessant’anni fa, di cui parleremo nelle righe che seguono.

Dopo “trattative con varie persone” ed aver preso visione di vari progetti, il lavoro di restauro veniva affidato a due squadre di artigiani e artisti: quella dei fratelli Angelo e Ignazio Degiorgi e quella dei fratelli Pietro e Tomaso Ivaldi. I primi erano mastri muratori, originari di Cabiago in provincia di Como (ndr. patria dei famosi maestri comacini) e ormai trasferitisi a Pieve del Cairo, i secondi erano originari di Toleto di Ponzone ed abitanti ad Acqui.

Il 7 novembre 1853 veniva sottoscritta la convenzione, dalla quale ho attinto i dati, relativa al rifacimento dell’intonaco della chiesa ed alla ridipintura della stessa.

Del primo si occupavano i Degiorgi, che dovevano provvedere all’approntamento di ponti, tavolati e tutto il necessario per le opere di muratura, dopo aver ovviamente stonacato le pareti e le volte ad eccezione solo dei piloni, lesene e bussola dell’organo, essendo quest’ultima stata fatta da soli circa trent’anni.

Il documento precisava pure che il nuovo intonaco doveva essere realizzato con “calce pura di buona qualità frammista ad arena scelta in quella quantità che verrà dal perito della chiesa stabilito”. Inoltre l’intonaco stesso doveva essere steso in linea retta e come volgarmente si diceva “sotto steso e non ondeggiante ed a mano a mano, specialmente per ciò che conviene la pittura a fresco che verrà suggerito a richiesta dei fratelli Ivaldi, il tutto però in modo che la lisciatura non presentasse la minima deformità”.

Il lavoro doveva essere innanzitutto un lavoro di squadra, perché la tecnica dell’affresco, che si opera “a giornata”, richiedeva la presenza contestuale dei muratori, che realizzavano l’intonaco relativo ad “una giornata” di lavoro del pittore, il quale stendeva il colore sull’arricciato fresco (ndr. affresco).

Inoltre c’era anche l’intervento del perito della chiesa, che controllava che i materiali usati fossero di buona qualità.

I fratelli Ivaldi dovevano realizzare quindi le pitture di tutte le pareti, volte ed archi della chiesa, come da disegno che era stato presentato e approvato dalla Amministrazione e che diventava parte integrante della convenzione che avevano sottoscritto.

Rimanevano esclusi i piloni delle lesene ed i relativi capitelli. Restavano pure fuori dal disegno approvato, ma compresi nel progetto e quindi da dipingersi, gli spazi attorno alle finestre delle navate laterali e a quella del coro ed inoltre due medaglioni alle pareti del Sancta Sanctorum con soggetto da definirsi da parte della Amministrazione.

Anche la sagrestia doveva essere pitturata e un emblema, dipinto sulla “medaglia” in volta.

Per quanto riguarda la parte finanziaria, gli esborsi a favore dei muratori erano previsti pari a £ 2.900 nuove Piemonte, da pagarsi in quattro rate: la prima un mese dopo l’inizio dei lavori, la seconda un mese dopo il collaudo, la terza nell’anno 1855 e l’ultima nel 1856.

Invece per i pittori la spesa era di £ 3.800, anche questa pagabile in quattro rate con cadenza come sopra, oppure l’importo poteva essere ridotto a sole £ 2.800 nel caso che si fosse optato per far sostenere all’Amministrazione le spese di vitto e alloggio di massimo cinque persone, compresi i due pittori.

I lavori avrebbero dovuto iniziare nel mese successivo e cioè a gennaio 1854 e terminare entro il mese di agosto dello stesso anno. Era prevista una penale di £ 50 per ogni settimana di ritardo dopo tale scadenza, a meno che lo stesso fosse dovuto a malattia di durata superiore a quindici giorni occorsa ai due pittori o ai fratelli Degiorgi.

La garanzia dei lavori era di un anno a datare dal collaudo da parte di un perito scelto da e comunque a spese della Amministrazione.

Gli Ivaldi si accollavano la garanzia comunque anche per il lavoro dei muratori, con facoltà di regresso nei confronti degli stessi.

Veniva già previsto in quella sede anche la possibilità da parte della Amministrazione di decidere di “far sfondare gli altari laterali” ed in tal caso le maggiori opere sarebbero state valutare come spesa da parte di periti da nominarsi ed in base a quanto stabilito per le opere oggetto della convenzione.

La convenzione portava le firme del prevosto Giovanni Cerra, di Tommaso Ivaldi, che firmava anche per il fratello Pietro, di Angelo Degiorgi, che sottoscriveva per il fratello Ignazio, dei rappresentanti della Amministrazione della chiesa e cioè avvocato Gaspare Cavallini, sacerdote Carlo Casorati, Giovanni Battista Gianzana e Giuseppe Conca. I testimoni erano il curato Onorato Rossi e Giacomo Ferrari.

Pietro Ivaldi, detto il muto, perché muto dalla nascita o, secondo alcuni, da piccolo in seguito ad uno spavento, era nato a Toleto di Ponzone nel 1810 e poi si era trasferito con il fratello Tommaso, che non lo abbandonerà mai, ad Aqui.

Fin da giovane aveva mostrato una grande inclinazione alla pittura, frequentando negli anni Venti l’Accademia Albertina di Torino, dove aveva ricevuto un’educazione artistica decisamente neoclassica.

A Roma ebbe la possibilità di studiare da vicino le testimonianze dell’antichità e, soprattutto, le opere dei grandi maestri del Rinascimento, certamente ad affascinarlo furono i capolavori di Michelangelo e Raffaello, in modo particolare di quest’ultimo, che, modello di equilibrio, misura e chiarezza, rimarrà per l'Ivaldi un costante punto di riferimento.

Forte dunque il fascino che lo legava all’arte del mondo antico e a quella che veniva considerata la sua rinascita nella cultura umanistica del XV e XVI secolo.

La pittura di Pietro, con i suoi personaggi che sono un po’ attori teatrali con una parte da recitare, o ricordano nelle loro posture modelli statuari ma nei quali l’artista riesce ad infondere sentimenti veri e genuini, con una semplicità e chiarezza che arrivano allo spettatore con effetto immediato, ricordano la pittura dei Nazareni, da lui sicuramente ammirati e studiati per i temi sacri.

Egli è straordinario nel manifestare con varietà le diverse espressioni e i momenti legati a vicende e atmosfere particolari, consapevole della destinazione e del messaggio contenuto nelle opere.

Colori luminosi accendono le sue scene, ambientate talvolta in paesaggi riconoscibili. Certo l’handicap di Pietro è stato superato in virtù della costante vicinanza del fratello Tommaso, importante non solamente per quanto riguarda i rapporti con la committenza, i contratti, ma anche per il lavoro di decoratore e stuccatore, svolto abilmente e con totale dedizione.

La pittura del "Muto" si connota con stesure piatte di colore, contorni netti, ed una certa rigidezza compositiva, lontana dal brio delle pennellate vivaci e sottili di gusto barocco e rococò dell’epoca.

Se i temi trattati sono semplici ed immediati, non si deve pensare a lui come ad un pittore semplicistico; la scelta di sfondi particolarmente chiari, le figure ben dosate di luci, ombre, colori, alla ricerca di una equilibrata armonia, anticipano infatti tecniche proprie della moderna fotografia.

Il Muto sapeva essere regista e sceneggiatore al tempo stesso, trasmettendo la magia delle emozioni da lui vissute in prima persona. Pietro Ivaldi era straordinario nel manifestare con varietà di soluzioni le diverse espressioni e i momenti legati a vicende e atmosfere particolari, consapevole della funzione e del messaggio da trasmettere.

Ecco infatti palme, deserti, improbabili cammelli dipinti con quel tanto di fantasia mista a verità, in grado di rendere esplicita la dottrina cristiana anche alla povera gente delle campagne che non conosceva il latino della messa o era addirittura analfabeta.

La sua pittura si sposa infatti alla perfezione con l’ambiente socio-culturale per cui è stata prodotta, in obbedienza alle esigenze di una committenza religiosa la cui prima missione era quella educativa. La sua arte diventa, per le popolazioni delle campagne, sussidio visivo necessario per la catechesi, attraverso la suggestione di un colore puro, e la semplificazione delle forme costruite nel rigore di un segno grafico di chiara ascendenza accademica. Tuttavia l’accademismo del Muto si mescola ad una esigenza comunicativa diretta, che si esprime attraverso una gestualità insistita, impossibile da eludere in un rapporto anche superficiale con la sua pittura. Questa gestualità che è la caratteristica stilistica dominante della sua arte, è da connettere direttamente alla sua infermità e alla pratica del linguaggio dei gesti.

La sua pittura rimane a testimonianza soprattutto della sua fede ed evidenzia la sua profonda conoscenza e capacità interpretativa della Bibbia ed il suo rispetto per la narrazione del Vangelo.

Il fratello Tommaso era semplicemente un buon decoratore, però indispensabile aiuto dell’artista.

Gli affreschi realizzati da Pietro Ivandi con l’aiuto del fratello Tommaso nella chiesa parrocchiale di Pieve rientrano a pieno titolo nell’opera del maestro e raffigurano la Storia della Madonna in un ordine che cercherò di delineare nelle righe che seguono. Partendo dalla parete a lato Epistola dell’altare maggiore, quindi nel Sancta Sanctorum, si trova l’affresco della Nascita della Vergine, seguito da quello della Presentazione di Maria al tempio, che si trova sopra al primo arco della navata centrale, seguito da quello delle Nozze di Maria con Giuseppe e, sempre nella stessa navata, dall’Annunciazione dell’angelo a Maria.

Sul primo arco della navata centrale a lato Vangelo si trova la Visita di Maria a S. Elisabetta, seguito da quello della Nascita di Gesù e da quello della Fuga in Egitto. Sulla parete del presbiterio a lato Vangelo si trova rappresentata l’Assunzione di Maria.

Infine sulla volta, sopra l’altare maggiore, si può ammirare l’affresco relativo alla Gloria di Maria in Cielo.

Sulla volta del coro sono stati realizzati sei figure di angeli.

Ritornando alla navata centrale, accanto ai grandi affreschi di cui sopra, venivano dipinti sei medaglioni con i sei profeti maggiori che, iniziando da sinistra, sono: Isaia, Ezechiele, Elia, Eliseo, Daniele e Geremia.

Venivano inoltre dipinti altri medaglioni con le effigi di patriarchi ed evangelisti.

Ritornando al coro, gli Ivaldi dipingevano le pareti dello stesso con piastrelle di 20 centimetri di lato e intorno alle finestre veniva invece dipinto uno stipite con sopra una cimasa chiara e scura e così facevano anche per le finestre degli altari delle navate laterali.

Nel frattempo, in data 8 luglio 1854, l’Amministrazione della chiesa aveva provveduto a modificare l’entità dei lavori, includendo anche la creazione di quattro cappelle, oltre al battistero, con il suo lavacro e cancello, con sfondamento dei muri perimetrali, che poi corrispondono alle cappelle attuali, eccetto quella della Madonna di Lourdes che venne costruita, come vedremo, solo nei primi del Novecento.

Ogni cappella doveva essere munita di due finestre con i relativi telai di legno ed inferriate e nelle stesse sarebbero poi stati posti gli altari esistenti.

Inoltre andavano fatti anche gli sfondi per alloggiare i quattro confessionali e aperte due porte laterali sulla facciata della chiesa, oltre ai nuovi pavimenti nelle cappelle e una revisione totale del tetto della navata centrale.

Il tutto portava ad una spesa di £. 4.275, che poi,  con qualche altro piccolo ritocco alla facciata, arrivava alla cifra di £ 4.425.

Alcuni di questi lavori insieme a due ulteriori medaglioni da dipingersi alle pareti del Sancta Sanctorum, al “ribasso” di 16 pilastri o lesene con i relativi capitelli, venivano fatturati a 650 franchi dai due pittori, oltre ad altri 200 franchi a fronte della dipintura delle quattro cappelle ed una icona a finti marmi.

E questo avveniva in data 21 luglio 1855.

Veniva infine eseguito anche un restauro della casa parrocchiale e della stalla affittata a Giovanni Manfredi per un totale li £. 563,70.

Il materiale edile veniva fornito dalla fornace Maggi e Degiorgi e oltre ai due fratelli Ignazio e Angelo risulta che vi lavorasse anche Domenico, un certo muratore Crescenzio, insieme al manovale Patria, a tali Bossi e Galante e a Giovanni Busoni.

Per curiosità, le tegole usate furono 3.022.

Con lettera dell’8 gennaio 1857 i fratelli Ivaldi si dichiaravano disposti a dipingere per la chiesa di Pieve anche la Via Crucis.

Si trattava di 14 quadri a olio con le loro belle cornici intagliate e dorate, da realizzare nell’arco di sei mesi, che venivano proposti per la somma di £ 1.200.

La proposta prevedeva l’invio del quadro rappresentante la terza stazione, cioè la Caduta di Gesù Cristo che, se trovato di gradimento, sarebbe servito da campione per il confronto con i successivi, sui quali dovevano essere dipinte non meno di quattro figure che primeggiano (ndr. figure in primo piano).

Il buon Giovanni Cerra, ottenuta l’approvazione del progetto da parte della  congregazione dell’Amministrazione della chiesa, di cui era il presidente, confermava la commessa ai pittori ottenendo uno sconto di 80 lire.

Tommaso Ivaldi a sua volta informava il parroco che il dipinto della terza stazione della Via Crucis si trovava, insieme al disegno relativo alla cornice, presso la stazione di Torre Beretti per essere ritirato da persona di fiducia.

Il pagamento avrebbe dovuto essere effettuato in tre rate annuali senza interessi a partire dal 1858.

Purtroppo uno di questi quadri, quello che rappresentava la deposizione di Gesù dalla croce (13a stazione), agli inizi del Novecento cadde per terra, si ruppe e fu sostituito con una copia, dipinta dal maestro Annibale Ticinese.

Questa notizia è riferita da Carlo Degiorgi che l’aveva appresa da Luigi Pezzali, grande cultore di storia della chiesa pievese, che tra l’altro gli aveva riferito anche un altro interessante episodio.

Si tratta di un racconto tramandatogli da Pietro Pallanzona, padre del pievese Angelo, detto Pedë’rlüsìë, che ricordandosi un fatto curioso, diceva: “Mia madre Lucia mi raccontava che intorno alla metà dell’Ottocento, quando lei era ventenne, si stava dipingendo l’interno della nostra chiesa parrocchiale e che il pittore che lavorava era muto”.

Nel 1864, dopo tutti gli importanti e costosi lavori alla chiesa, il prevosto Cerra si trovava in pessime condizioni finanziarie e chiedeva aiuto al Comune, il quale non si trovava di certo in condizioni economiche migliori a causa delle famose requisizioni austriache dovute ai passaggi di militari sul suo territorio, che quindi declinava cortesemente.

 

Per ulteriori approfondimenti cfr. 500 anni di vita di alcune comunità della bassa Lomellina riflessi nella storia della loro chiesa (1460-1960), di Mario Angeleri, edito nel 2016 da Associazione culturale Aldo Pecora, dalle cui pagine 92-96 è stato estrapolato quanto sopra.

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LA VIA CRUCIS DI PIETRO MARIA IVALDI